Orsini, Bernhard, memoria e pietas. E la magia della scoperta. L’incontro tra Orsini e Bernhard che dà vita ad un grande momento di teatro. E’ tornato Umberto Orsini con il suo Nipote di Wittgenstein regalando al Cucinelli di Solomeo una prima nazionale evento. Un attore icona in sella al suo, forse, più amato cavallo di battaglia si è confermato in scena impavido e fragile maestro di virtuoso controllo. Tanto da trasformare la sua recitazione in scrittura.
Orsini, Bernhard, memoria e pietas
Orsini è Thomas Bernhard e anche il suo alterego, in bilico tra finzione e autobiografia. Ed è Thomas Bernhard in rapporto alla sua memoria. Ne rivela i segreti, accentuandone i meccanismi di prolessi e analessi. Ne sottolinea la funzione di implacabile strumento introspettivo, da cui trarre il frutto più amaro: la verità sullo stato della “sospensione” della sua umanità in rapporto all’amico Paul, personaggio scomodo e inopportuno e quindi, come programmaticamente annunciato dal titolo, condannato a vivere in ombra non solo del celebre parente ma della società tutta. Una discesa negli inferi della consapevolezza del proprio tradimento nei momenti più duri della vita dell’amico Paul.
Il salvamento è nell’opera letteraria
In questo paziente lavoro di ricostruzione, che arriva rapido e leggero nonostane l’innegabile cupezza di luoghi e situazioni, ci sono alcuni momenti di commovente bellezza ed inspirata euristica. Orsini riesce a far coincidere il personaggio storico e quello narrativo e teatrale di Thomas Bernhard in un sentimento che squarcia improvviso un orizzonte fosco, in un abbraccio che rende trasparente anche l’umanità di un grande attore. Tale slancio fa forse eco ad una pietas che ne Il nipote di Wittgenstein non è sentimento religioso, né amore patriottico o nei confronti della famiglia. Ma sembra trarre origine da una visione altra: “è dovuta alle tracce di ciò che ha vissuto e che trova nell’opera letteraria” il salvamento di ciò che altrimenti andrebbe perduto per sempre. Ovvero di quello che è umile, minimo e che rischia di perdersi nell’oblio della storia (Gianni Vattimo in: Dialettica, differenza e pensiero debole).
Salva è la mente di Bernhard
Nel monologo, che ha luogo nell’intimità di una casa, la narrazione avvolge giornate di interne memorie con pochi raggi di sole e qualche boccata di aria fresca. E procede, a tratti, nei toni distaccati di una deposizione, non negando, tuttavia, spazi ad affondi sarcastici e volteggi ironici. Salva è la mente di Bernhard, non schiavo della sua follia come il povero Paul che non la sapeva controllare. Il ruggito del re dei leoni risuona in una foresta ormai silenziosa mentre albe e tramonti si susseguono.
L’interlocutrice muta
Interlocutrice muta del suo vivere è la fedele governante, Elisabetta Piccolomini. Interprete di segni e di umori, a cui rimanere appesa. Pilastro dell’esistenza di un anziano, sempre più incapace di badare a sé e agli impulsi della sua memoria. E’ lei forse, l’unica a decifrare il contesto e a cogliere in pieno il sottotesto che si gioca tutto tra le parole usate e le verità di altri linguaggi, figli di una realtà superiore. Il nipote di Wittgenstein come fu già il Nipote di Rameau di Diderot, funge da specchio di una società. E se nel primo il nipote ne incarna i vizi volgendoli al proprio guadagno, nel secondo all’insanità delle regole di una società malata può essere contrapposta solo una follia al contrario.
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