Isabella Ragonese è Clitennestra
Con cinque affollate repliche, dal 14 al 18 febbraio, la Clitennestra di Isabella Ragonese e di Roberto Andò è approdata al Teatro Morlacchi di Perugia capovolgendo la prospettiva su una delle più controverse figure femminili della mitologia classica. In una lenta ed inesorabile caduta prende vita una spirale di regressione che trascinerà ogni ordine nel caos, ogni sentimento nell’abisso più oscuro. È in questo luogo che incontriamo la Clitennestra ispirata da Colm Tóibín (La casa dei nomi) e magistralmente messa in scena da Roberto Andò.
Clitennestra e l’infamia del femminile
Il personaggio, diciamocelo, non ha mai goduto di buona reputazione. Un giudizio inappellabile ha inseguito Clitennestra per migliaia di anni, e centinaia di rivisitazioni del mito a partire da quella sua prima apparizione nel testo più antico dell’Odissea (forse il più clemente nei suoi confronti) fino ai nostri giorni. Donna immorale e spietata assassina, agli antipodi da Penelope, paziente ed incorruttibile da qualsivoglia passione. Una Penolope emblema della perfezione. Tuttavia, questa volta qualcosa è cambiato. Qualsiasi possa essere il giudizio finale sul comportamento di Clitennestra, innescato dall’atroce figlicidio commissionato da suo marito Agamennone al fine di ottenere il favore degli dei in battaglia, la sua rabbia non è più un tabù.
Dall’isteria patologica alla rabbia riabilitata
È piuttosto il filo fragile al quale si tiene appesa tutta la sua disperata umanità. È per questo che in nessun momento della rappresentazione quel magma di ira, odio e strazio che la scuote come una foglia, che trasforma i suoi singhiozzi in un sibilo tagliante, la rende incomprensibile e distante. Mai quel dolore è percepito come isteria, così come lo stesso Freud (nell’omonimo saggio) l’aveva rappresentata patologizzando, forse, proprio la rabbia di molte donne dell’alta società del tempo. Al contrario qui la rabbia, in quanto espressione dell’animo umano, sembra ricoprire una funzione catartica quella di dare voce ad un femminile represso e traumatizzato come forse mai nella storia del mito. La rabbia sarà così l’ultima ancora dell’umanità nel caos del sovvertimento dei valori imposto dalla guerra, ma non potrà impedirlo.
Le ragioni della guerra ed il sacrificio di Ifigenia
Clitennestra, convertita all’odio, rimarrà l’assassina di suo marito e l’usurpatrice della sua stessa pace familiare o quello che ne resta. Ma, a prescindere da ogni condanna morale, la sua voce, insieme a quella di milioni di altre donne che hanno subito sul proprio corpo e sui propri figli l’empietà delle guerre, trova in questa pièce finalmente una sua profonda legittimazione e risuona come un monito. Niente vale il sacrificio di Ifigenia, emblema della purezza, quintessenza della civiltà, personificazione dell’umanità che offre pacificamente se stessa sull’altare di un disegno che di umano non ha nulla. Le ragioni della guerra difficilmente lo sono.
Uno spettacolo ricco e avvolgente
Con un cast di prim’ordine (in scena Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Becheroni, Denis Fasolo, Katia Gargano, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini, coro Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini, Antonio Turco) lo spettacolo,una produzione del Teatro di Napoli, si presenta sorprendentemente ricco e curato in ogni suo aspetto. Musiche (e direzione coro, Pasquale Scialò), costumi (Daniela Cernigliaro), coreografie (Luna Cenere), coro, scene e luci (Gianni Carlucci), tutto funziona offrendo una pienezza di suoni, parole e sensazioni oramai abbastanza rara sui palchi dei teatri italiani.
Note di Regia
“Leggendo il romanzo di Colm Tóibín, “La casa dei nomi”, ho provato una grande emozione, e alla fine, quasi senza accorgermene, mi sono sorpreso a fantasticare sulla possibilità di mettere in scena il personaggio più grandioso che vi è narrato, Clitennestra. Una figura che nell’Odissea è presentata come l’anti-Penelope, il prototipo della donna infedele e assassina. La stessa che quando Ulisse scende nel mondo dei morti e si imbatte nel fantasma di Agamennone è qualificata con l’appellativo di “perfido mostro”. Invece, nell’Orestea di Eschilo, Clitennestra è una regina assetata di potere, autrice di una vendetta che si prolungherà oltre la morte. Essa uccide il marito Agamennone che, oltre ad infliggerle gravissimi torti, aveva sacrificato in nome della guerra sua figlia Ifigenia ed è uccisa a sua volta dal figlio Oreste, che perseguita da morta fino al delirio. «Riabilitata» da filosofi e scrittrici, Clitennestra è rimasta a lungo il prototipo dell’infamia femminile. La sua vicenda è giunta a noi soprattutto grazie all’Orestea, la trilogia (Agamennone, Coefore ed Eumenidi) in cui Eschilo, nel 458 a.C., celebrò la fine del mondo della vendetta e la nascita del diritto. Nel romanzo di Tóibín, la tragica storia di rancore e solitudine, di sangue e vendetta, di passione e dolore è narrata da tre punti di vista, ma soltanto le due donne, Clitennestra e Elettra, raccontano in prima persona e la loro voce è decisamente la più drammatica. Chi conosce Tóibín sa che egli compone in ogni suo libro una drammaturgia del dolore e della perdita ed è interessato al silenzio che si crea attorno al dolore, alla vita di donne sole che portano con sé il peso di un trauma. Voci che parlano col timbro speciale conferitole della violenza subita. Se Clitennestra ci è stata tramandata come un personaggio essenzialmente negativo, qui finalmente si trovano dispiegate le sue ragioni umane. Ed è ciò che mi ha attratto di questo testo, per il quale ho subito individuato una interprete straordinaria come Isabella Ragonese. Un’attrice in grado di esaltare e modulare i toni complessi, ed emotivamente risonanti, di Clitennestra. Tóibín non dà giudizi, accoglie la potenza emotiva che scaturisce da questo personaggio e ne esplora le azioni confrontandole con le parole che adopera per far luce nel buio della sua interiorità danneggiata. Ne nasce un teatro di ombre, di voci, di fantasmi, che si muove dentro e fuori: dentro, tra i labirinti della mente, fuori in un luogo senza tempo dove vivi e morti dialogano senza requie”. Roberto Andò